Aletschhorn

Aletschhorn, 4193 m. Via normale per lo sperone sud-ovest dalla Oberaletsch Hütte (Valle del Rodano).

Caratteristiche: Lunghissima gita, molto faticosa, anche se tecnicamente non troppo difficile, che può presentare problemi di orientamento nella parte centrale. Sulle estesissime morene dell’Oberaltschgletscher la progressione è agevolata dalla presenza di catarinfrangenti. Nella parte alta dello sperone sud ovest sono infissi frequenti fittoni di sicurezza. Il percorso è glaciale da q. 3382 a q. 3736 e misto in seguito. L’esposizione non è mai eccessiva, ma il panorama è estesissimo. Va affrontata quando il ghiacciaio sospeso e i successivi canali siano privi di ghiaccio.

Difficoltà: PD+

Dislivello: 1700 m + 100 m

Carte: CNS 1:50.000 f. 5004, Berner Oberland.

Accesso: Attraverso il passo del Sempione raggiungere Briga. Da qui proseguire fino alla vicina località di Blatten bei Naters da dove parte la funivia per Belalp. Avvicinamento: Dalla stazione a monte della funivia, Belalp 2094 m, salire all’Hotel Belalp, 2130 m. Scendere quindi lungo il vecchio percorso fino a q. 1972. Da qui seguire il nuovo sentiero Panoramaweg che, scavalcata la morena, scende ad attraversare il torrente glaciale, risale la sponda opposta e si sposta infine orizzontalmente, con lungo percorso in saliscendi, molto panoramico, fino a raggiungere la Oberaletsch Hütte, 2640 m. (4-5 h)

Salita: Dal rifugio occorre scendere per più di 100 m lungo catene, funi e scalette, fino all’Oberaltschgletscher dove la presenza dei catarifrangenti aiuta a percorrere l’infinita e piatta morena fino all’inizio della salita vera e propria, q. 2650 circa (1.30 ore). Da qui occorre risalire la morena laterale sinistra orografica del ghiacciaio che si ha di fronte, di sabbia compressa ripida e durissima, sulla quale compare, se non l’hanno nel frattempo rimosso, un catarifrangente. Non raggiungerlo ma spostarsi a destra e reperire una traccia, segnalata da ometti, che risale tra rocce accatastate la sponda destra orografica del torrentello più a monte dei due che scendono paralleli da alte cascate. Quando la pendenza diminuisce, la traccia, non sempre evidente, va a sinistra e, a tratti su terreno esposto e tormentato, traversa lungamente sotto salti di roccia interrotti da cascate. Infine la traccia risale un pendio morenico per raggiungere poi a sinistra un nevaio, sulla sponda opposta del quale, tra le roccette che fiancheggiano un canalino terroso che si deve poi salire, è piazzato un ultimo catarinfrangente, questo sì utile. Attraversato il nevaio e salito il canalino sino in cima a una piccola altura, q. 3101, volgere a destra e seguire la larga cresta di grandi massi accatastati fino all’inizio del ghiacciaio sospeso, q. 3382 (2.30-3 ore). Secondo le condizioni e facendo attenzione ai crepacci, superare al meglio la lingua terminale del ghiacciaio, che poi si percorre senza problemi uscendo a sinistra sulla cresta sud ovest. Seguirla facilmente per roccette e neve fino alla base della parte alta della cresta, dove questa si raddrizza e si scompone in canalini e piccoli speroni. Lungo un pendio nevoso salire ad imboccare il canalino di destra, q. 3736, dove compare il primo di una lunga serie di fittoni di sicurezza che conducono, lungo faticosi pendii innevati fino a 40° con brevi tratti di misto fino al II, alla panoramica cima (3-4 ore, totale 7-8.30 ore).

Discesa: Per lo stesso itinerario (6 ore).

Catarinfrangente sulla morena

Antefatto

L’Aletschhorn è una solitaria e isolata montagna, piazzata nel luogo più remoto al centro del vasto Oberland, lambita dal ghiacciaio ritenuto il più esteso delle Alpi. Una meta ambita ma dall’avvicinamento estenuante, da qualsiasi versante la si voglia salire.

Paolo, Marco ed io meditiamo da tempo la salita in sci dell’Aletschhorn dal Mittelaletsch Bivak, la via normale che, almeno sulla carta, consente di ripartire i dislivelli nel modo più equo tra avvicinamento e salita. Per disporre tutti e tre contemporaneamente dello stesso fine settimana, arriviamo a fine maggio. Per la gita stanziamo tre giorni e trascorriamo le sere precedenti attaccati a Internet per seguire Meteo Svizzera e consultare gli orari delle ferrovie svizzere. Contattiamo al telefono anche un paio di guide della zona per informarci sulle condizioni. Combinazione entrambi si chiamano Stucky. L’uno afferma che in alto le condizioni sono eccellenti, ma potremmo non trovare più neve in basso. L’altro è più incoraggiante e suggerisce di raggiungere il Mittelaletsch Gletscher dallo Jungfraujoch e al ritorno passare invece da Märjelensee e Fiescheralp. Ciò comporta lasciare l’auto a Briga e proseguire in treno per Interlaken. Il meteo dovrebbe essere favorevole e molto caldo. La situazione neve è un po’ un rebus, comunque decidiamo di provare.

Venerdì partiamo prestissimo da Torino. A Briga lasciamo l’auto nel parcheggio della stazione, ma, appena saliti sul primo treno, Paolo si accorge che non abbiamo pagato il parcheggio. Occorre risolvere in qualche modo il problema, onde evitare di vederci sequestrare l’auto. Approfittando dei vari cambi, interpelliamo il personale delle ferrovie e veniamo indirizzati alla biglietteria della stazione di arrivo, a Interlaken, come unica chance. Qui una gentile impiegata si mette in contatto con la sua omologa di Briga e trova un accordo: noi paghiamo il parcheggio a Interlaken e a Briga ci mettono il talloncino sul parabrezza dell’auto.

Con tutto ciò iniziamo a scendere dallo Jungfraujoch lungo il Grosseraltesch Gletscher soltanto a mezzogiorno. I primi 300-400 metri di curve su neve magnifica ci esaltano. Ma i sorrisi si spengono presto, ben prima di Konkordiaplatz, quando la pendenza si smorza e la neve diventa una colla immonda. Iniziamo a spingere, ‘battendo’ a turno la traccia. Oltre tutto, poco oltre Konkordiaplatz, sulla superficie del ghiacciaio iniziano a comparire increspature e subdole crepe. Perciò, dopo esserci legati, iniziamo a vagare zigzagando finché rimane solo più qualche chiazza di neve tra i piccoli seracchi grigio-neri ricoperti di detriti e poi la neve finisce del tutto. Quando ci fermiamo dinanzi a un caos primordiale di ripide morene frananti sono già passate più di 4 ore.

L’assenza di neve dà la botta finale allo sconforto nel quale siamo già precipitati: abbiamo sbagliato tutto, la valutazione delle condizioni e l’ora in cui iniziare a scendere. Altro che planare dolcemente fino all’imbocco del Mittelaletsch Gletscher! Sul punto di fare dietrofront, consci di dover risalire fino alla Mönchsjoch Hütte poiché la Konkordia Hütte è chiusa, scorgiamo qualche raro ometto. Il semplice pensiero di essere sulla strada giusta, chissà perché, ha il perfido potere di spronarci e allora continuiamo a scendere con gli sci a spalle tra sabbia, sassi e ghiaccio nero. Così giungiamo all’inizio della valle del Mittelaletsch Gletscher, da dove inizierebbe la salita di 3 ore al bivacco, che si sono fatte le 17. E’ che nemmeno di qua si vede un briciolo di neve. A questo punto siamo stanchi e demoralizzati e di salire ancora con gli sci a spalle non se ne parla proprio, né per andare avanti e nemmeno per tornare indietro.

Giunti a un ripianetto erboso solcato da un ruscello, decidiamo di fermarci in questo angolo bucolico incastonato nel caos primordiale, rimandando a domani l’operazione di rientro. Il tempo è bello, non farà molto freddo e tutti abbiamo attrezzatura d’emergenza per un bivacco.

Benché ci sentiamo un po’ dei cretini, nelle lunghe ore di luce che ancora rimangono cerchiamo di non lasciarci troppo sopraffare dai pensieri negativi. Per essere la prima esperienza di bivacco, considerato il posto magnifico nel quale ci troviamo, la cosa non si presenta affatto drammatica e per quanto mi riguarda attendo la notte con curiosità. Cuciniamo una abbondante minestra liofilizzata con il solito cous cous, laviamo le stoviglie con l’acqua del ruscello, poi cerchiamo ciascuno un angolino in cui rintanarsi e ci stendiamo.

Mentre le stelle man mano si accendono allo spegnersi degli ultimi riflessi del tramonto, osservo i compagni armeggiare nei sottili teli di alluminio dorato. Sarà un continuo girarsi e rigirarsi per tutta la notte. Ogni volta mi sveglio ma per fortuna ogni volta mi riaddormento, cullato dal mormorio dell’acqua che scorre lì vicino e dai lontani rumori di assestamento del ghiacciaio, sul duro terreno appena ammorbidito dai cuscinetti di grassa erba di montagna. Provo la sensazione di essere accolto dal volto benigno di quella stessa montagna che ci ha respinti. E a questo sentimento mi abbandono.

Il mattino, appena fa chiaro, siamo già tutti in piedi e poco dopo lasciamo la valle ancora nell’ombra. Risalita la morena, attraversiamo il ghiacciaio sci ai piedi, li togliamo per discendere l’altra sponda in ramponi sui seracchi neri e poi li rimettiamo per risalire la valle di Märjela. Li togliamo definitivamente all’imbocco del tunnel del Tälligrat, oltre il quale ci attende ancora la sterrata fino a Fiescheralp. Alla fine ci mettiamo più di 6 ore, per uno spostamento tra i 12 e i 15 km e un dislivello positivo che raggiunge a stento i 300 m.

Il rientro alla civiltà, tuttavia, è talmente sconvolgente da farci immediatamente rimpiangere il nostro angolo di solitudine sotto le stelle. Prima una gara podistica con gente che scorrazza in mutande tra terriccio e neve e s’infila nel tunnel semibuio emettendo strani suoni per farsi largo. Poi una gara di discesa in mountain bike lungo un sentiero che già a piedi percorrerei con molta attenzione. E, ancora, una gara di scialpinismo che non capiamo dove si stia svolgendo poiché il versante su cui ci troviamo è privo di neve, salvo che al nostro arrivo a Fiescheralp ci chiedono se siamo dei concorrenti anche noi e verrebbe da rispondere di sì. Infine un girotondo impressionante di cose che volano: per fortuna insetti pochi, ma vagonate di parapent e deltaplani, che gli elicotteri di servizio, facendo la spola tra le varie dispute, riescono comunque ad evitare.

Morale? Mentre scendiamo in cabinovia a Fiesch rifletto sul fatto che in due giorni pieni non siamo nemmeno riusciti a salire fino al Mittelaletsch Bivak. E pensare che abbiamo pianificato la gita in tre giorni per prendercela comoda. Ma mi dico che nonostante tutto ci siamo divertiti. L’immagine dei bachi da seta dorati stesi al crepuscolo sul prato e quella dei seracchi che al primo sole si stemperano in onde azzurre, sempre più tenui fino al piatto assoluto e assolato di una calotta polare, credo rimarranno impresse nei nostri più bei ricordi di montagna.

5-6 giugno 2010

Fatto

Tutto inizia dall’incontro con Alessandro, Ale, questa primavera durante un giro con gli sci al Gran Sasso. Chiacchierando di montagna e di gite in quota è venuto fuori che nemmeno lui ha ancora salito l’Aletschhorn. E va a finire che ci troviamo in quattro alla partenza della funivia per Belalp diretti alla Oberaltesch Hütte, nel primo pomeriggio di un caldo e ventoso sabato di luglio. Con Ale, avvocato quarantenne e genoano, ci sono i suoi più giovani amici Maxi, all’ultimo anno di Ingegneria e sampdoriano, e Miki, curiosamente del Rimini, alle prese con i robot e la meditazione trascendentale. Il sottoscritto, decano del gruppo e sedicente pensionato, dovendosi schierare si dichiara torinista. Quanto all’Aletschhorn, ho capito che se voglio salirlo devo superare il mio ripudio per i forti dislivelli e venir meno al principio per cui, se proprio si deve, almeno con gli sci.

Da Belalp ci incamminiamo lungo il nuovo sentiero Panoramaweg, che, come suggerisce il nome, è davvero piuttosto panoramico e soprattutto evita le noiose morene dell’Oberaltesch Gletscher, anche se a prezzo di innumerevoli saliscendi. La salita alla capanna è già un viaggio. Soltanto dopo diverse ore di cammino giungiamo alla isolata Oberaltesch Hütte, appollaiata su un gradino erboso a picco sulla confluenza del Beich Gletscher con il vasto Oberaltesch Gletscher, al cospetto del Nesthorn da un lato e dello Schinhorn dall’altro. L’Aletschhorn, che si innalza al fondo dell’alto bacino dell’Oberaltesch Gletscher, visibile soltanto inoltrandosi sulla traccia dietro al rifugio, appare altissimo e lontano.

Quando, dopo un sonno molto breve, lasciamo il rifugio, ci imbattiamo subito nella vertiginosa calata sul ghiacciaio lungo catene, scalette e funi, preoccupati non tanto per un eventuale salto nel buio quanto per la fatica di doverle risalire a fine gita per riguadagnare il rifugio. Ma a risollevarci il morale ecco, giunti alla fine della discesa, la rassicurante presenza dei catarifrangenti che, pur confondendosi un po’ con le stelle, dal momento che la bellissima luna piena è già tramontata, conducono quasi per mano lungo l’infinita e piatta morena glaciale fino a dove inizia la salita vera e propria.

Poiché ai catarifrangenti assegniamo incondizionata fiducia, quando vediamo il prossimo piazzato sul pendio dinanzi a noi, in mancanza di altri riferimenti visibili siamo indotti a raggiungerlo per la linea più diretta. Perdiamo così l’esile traccia, che pure da qualche parte sarà, per ritrovarci abbarbicati nella notte alla scoscesa morena laterale del ghiacciaio, su quell’orribile terreno di sabbia compressa e durissima da scalfire, con ghiaia superficiale che si sgretola e pietre incastrate a volte solide a volte no. Saliti già per un tratto con crescente difficoltà, consapevoli di essere fuori strada, non ci è più possibile tornare indietro: l’unica via di fuga è verso l’alto. Magari avessimo a portata di mano le piccozze, ben assicurate invece sul retro dello zaino! Ci muoviamo come equilibristi sulla slackline, con le unghie nella terra e i piedi a cercare conforto su qualsiasi minima asperità che il terreno possa offrire. Puntiamo in diagonale a una massa più scura, speriamo siano rocce. Alcune rigole da attraversare complicano le cose. Qui il piede di un compagno perde aderenza, ma è prontamente trattenuto dalla mano provvidenziale di un altro lì a fianco. E’ il momento più rischioso di tutta la scalata. Una caduta qui potrebbe avere esiti infausti. Usciamo uno alla volta sulle rocce, fuori dall’insidiosa morena.

Seguendo a naso, come tartufari, una specie di traccia che va lungamente a sinistra, tra rumore di cascate e incombenti e lisce placche, che appaiono e scompaiono come allucinazioni alle mobili luci delle frontali, ci troviamo poi a calzare i ramponi per attraversare il nevaio indicatoci dal custode, diretti al secondo e ultimo catarifrangente di questo tratto. Sulla sponda opposta del nevaio un ripido canalino terroso ci conduce nei pressi della q. 3101. Mentre sorge l’alba, per svegliarci del tutto, ci cimentiamo nell’ardua ginnastica tra i grandi massi accatastati della cresta che porta al ghiacciaio sospeso.

Le rocce della cresta sembrano sempre vicine e quasi alla nostra stessa altezza. In realtà, più procediamo più queste si fanno elevate e distanti. Finalmente sostiamo per calzare i ramponi e legarci all’inizio del ghiacciaio. Una ripida lingua nevosa alta una quarantina di metri e larga una decina è l’unico punto transitabile che interrompe la seraccata. Il manto nevoso è reso solido dal rigelo notturno. La risalita del ghiacciaio con passo finalmente sciolto non ha storia. Lo sperone su cui sorge il rifugio appare sempre più basso e lontano, a rammentarci, se mai ce lo fossimo scordati, come sono trascorse le ultime 5 ore.

Alla base del ‘canalino di destra’ individuiamo il primo di una serie di fittoni di sicurezza che ci condurranno tra neve e misto fino in cima. Siamo un po’ provati e l’andatura non è propriamente veloce. Quando ci raccogliamo tutti sull’affilata cresta nevosa sommitale di questa mastodontica montagna, non una nube in cielo, appena un alito di vento e un panorama immenso. Un’esperienza ancora più emozionante perché siamo soli. Un sogno finalmente realizzato, la soddisfazione di avercela fatta, la percezione di sentirsi bene quassù e non avere nessuna fretta di abbandonare il luogo.

Ci imponiamo però ben presto di scendere, con il pensiero alla perfida morena laterale che ci attende. In parte disarrampicando e in parte con delle doppie sui fittoni, ci portiamo in fondo al canalino di destra. Arrivati al ghiacciaio, il ripido dosso nevoso percorso stamani si è trasformato con il caldo in un intrico di piccoli crepacci coperti di neve molle in cui a turno finiamo dentro prima io e poi Maxi, trattenuti dai rispettivi compagni di cordata.

Giunti alla morena laterale scopriamo che la traccia passa in una zona tranquilla ben lontana dall’ingannevole catarifrangente, tra rocce accatastate sulla sponda di un ruscello. Alla base scorgiamo due piccoli ometti che al buio sono difficili da vedere, specie se distratti dal catarinfrangente. Nessun ostacolo ormai ci può turbare e, nell’ombra del tramonto, ci incamminiamo per gli ultimi chilometri sul pietrame dell’Oberaltesch Gletscher diretti ai 100 metri di corde, scale e catene che poi risaliamo con più rassegnazione e meno fatica di quanto temessimo.

Rientrati al rifugio dopo 19 ore, i gestori, per nulla scomposti, ci preparano la cena. Cosa volere di meglio? Quattro birre, naturalmente, per festeggiare il successo. Poi metto una mano in tasca cercando l’accendino per la rituale sigaretta della sera e mi resta tra le dita un sassolino, benedetto sassolino che, forse segno del destino, dalla morena di sabbia compressa su cui arrancavamo ostinatamente per raggiungere il catarinfrangente ha voluto scendere con me.

16-18 luglio 2016

L’Aletschhorn con al centro lo Sperone Sud-Ovest percorso dalla via normale (Foto di Michele Focchi)
In salita nella parte alta dello Sperone Sud-Ovest dell’Aletschhorn