Racconto dalla Valle Tanaro al Colle della Maddalena


compagni

Boschina

Dopo due anni durante i quali la neve nelle Marittime non si fa vedere, nell’inverno ’90-’91 qualche abbondante precipitazione fa ben sperare. Finalmente, nel marzo del ’91, posso organizzare in concreto l’inaugurazione della traversata. Valdinferno. Il nome è già un programma. E invece è soltanto un tranquillo vallone laterale della Valle Tanaro colonizzato da latifoglie e conifere. Mai partenza è stata più allegra e il gruppo più entusiasta. Trascorriamo una piacevole serata di sabato al Rif. Savona in arditi esperimenti di alta cucina nel tentativo di confezionare un pasticcio di polenta e liofilizzati di incerta provenienza e dubbia consistenza (in compenso pesano molto poco e costano proprio tanto).

Il mattino successivo, sopravvissuti agli esperimenti, risaliamo la Valdinferno, con neve molto scarsa, mentre sorge un’alba radiosa. Poi è la volta del ripido e gelato versante occidentale dell’Antoroto, l’arrivo alla croce di vetta sotto un cielo divenuto plumbeo, la discesa e la successiva risalita al Passo della Valletta su neve ora bella e sciabile. Per finire nel Vallone del Rio Borello in una boschina inestricabile, dove si sfonda fino alla pancia nella neve molle, resa ancora più faticosa dalla pioggia finalmente battente. In ultimo, il pellegrinaggio lungo la Val Corsaglia, tanto bella quanto dimenticata da Dio e dagli uomini (in tutto il giorno non incontriamo anima viva), nella vana ricerca di un tetto sotto cui Alberto e io, che vorremmo continuare la traversata, possiamo asciugar le ossa. Non lo troviamo, per cui non ci resta che tornare in Valdinferno a recuperare l’altra macchina e poi a casa.

Cinghiale o capretto?

Appena due giorni dopo, tornato il tempo bello, Alberto ed io ci diamo appuntamento a Mondovì. Io da Torino e lui da Genova. Pernottiamo in camper al fondo della Val Corsaglia dopo aver ritirato le chiavi del Bivacco Cavarero e una bottiglia di dolcetto al ristorante dal nome buffo, “DHO”. Il mattino dopo, i dolci pendii presso la Sella Revelli si assestano con un soffio sinistro sotto i nostri sci. Poi, appare la piccola costruzione in legno del bivacco. Accogliente. Ottimi il dolcetto, il silenzio, la solitudine e il nescafè, un po’ meno gli altri liofilizzati. A guardar fuori è tutto cielo e neve, neve recente che riluce sul fondo ocra di sabbia africana della vecchia neve marcia, e che riveste di forme ondulate e spoglie queste singolari montagne. Il caldo è soffocante e il sole consuma rapidamente la nostra traccia. Leggére volute di vapori si levano in cielo e ovunque si riflette un chiarore abbacinante e senza ombre. Nel pomeriggio scaviamo la “carota”. Il responso è desolante: a contatto del suolo c’è ancora neve inconsistente.

L’alba striata di nubi violette sorge col soffio improvviso dello scirocco. Dal Colletto Revelli appare il Mongioie, tra spesse filate di nebbia, con il ripido versante orientale carico di neve instabile. Niente da fare: al Bocchin dell’Aseo, mentre cadono i primi fiocchi, calziamo gli assi e li volgiamo verso il vallone della Raschera, a noi ignoto, che confluisce nella valle principale poco a monte di Borello. I risalti più ripidi li discendiamo a piedi lungo la massima pendenza. A Stalla Buorch ci rilassiamo. E’ quasi mezzogiorno. “E se ci facessimo preparare due ravioli al DHO?” “Accettato.” “Bene. E dopo i ravioli, i signori desiderano cinghiale o capretto?” “Entrambi, grazie”.

Un anno dopo

Il cielo è pieno di stelle e l’aria frizzante quando parcheggiamo il camper, noi, i soliti due, sulla piazzetta di Viozene davanti alla chiesa. Cena frugale e notte senza pensieri. La fiducia è… alle stelle. E’ ancora pieno inverno, la fine di gennaio, ma io ho la fregola di riprendere la traversata e le condizioni dovrebbero essere discrete: spogli i versanti a sud, lievi accumuli su quelli a nord, tempo bello stabile. Dei 1400 m di dislivello per salire il Mongioie ne percorriamo due terzi con gli sci a spalle. Morale, giungiamo in vetta stanchissimi. In compenso, da qui si vede in lontananza il mare, un lungo baffo color arancio sotto il sole ormai oltre lo zenit. Purtroppo, ci accorgiamo che anche il versante di discesa è ben scarsamente innevato e anche il tratto successivo, verso il Marguareis, appare completamente spazzato dal vento. Tuttavia, qualcosa ci spinge a scendere di là.

Dalla Bocca delle Scaglie la via di discesa perde contorni e riferimenti e ci troviamo a vagare, senza più pendenza, in un paesaggio tutto uguale, tra brevi falsopiani e lente risalite, con appena una spanna di neve cementata in superficie dal vento ma inconsistente sotto, nella quale affiorano terra e rocce. Ogni spostamento si fa eterno. Solo nell’imminenza del buio avvistiamo il rifugio Mondovì, ancora distante. Giungiamo stravolti all’edificio color polenta alle 18,20. Dopo una giornata di solitudine pare che avremo compagnia, poiché il fascio di luce della frontale si riflette sulla porta d’ingresso del locale invernale cui sono stati tolti i battenti.

Sul tavolino di legno, ingombro di avanzi di cibo e bottiglie mezze piene di vino, una lanterna a gas crepita rumorosamente. C’è una stufetta, ma è riempita di cocci di vetro e lattine. Al primo piano del letto a castello giace sdraiata una persona, immobile, in un bozzolo di coperte e cuscini. Ci osserva attraverso tondi occhialini cerchiati di metallo, anche il viso è rotondo, la testa rasata, il colorito intenso quasi olivastro. In un Italiano dal forte, indecifrabile accento straniero chiede, ineffabile e senza scomporsi, muovendo appena gli occhi e la bocca, “Siete turisti?”. La presenza e le parole dello straniero mi lasciano allibito e inquieto. Col poco fiato che mi resta chiedo a lui piuttosto che ci fa quassù. Afferma di essere slavo, croato per la precisione, abitante a Genova, e di essere salito a piedi da Rastello due settimane fa, prima delle nevicate, per godersi un po’ la montagna. La sua attrezzatura consiste in scarpe leggere da trekking, una borsa da viaggio ancora ingombra di confezioni di pasta, una lampada a gas, alcune forme di pane e le bottiglie di vino sul tavolo. Scopro anche una pila di libri tra cui un dizionario Italiano-Yugoslavo e l’Iliade. Come abbia portato su tutta questa roba resta un mistero.

Ho le estremità insensibili e una spossatezza infinita, così srotolo il sacco piuma sulla brandina e tosto mi ci infilo tutto vestito. Viste le condizioni generali e individuali, da qui non resta che scendere, e il giorno dopo, alle 9, abbandoniamo il rifugio e il suo misterioso occupante, che non s’è mai mosso dal letto, e riprendiamo il duro esercizio di aprire pista. Giunti a Rastello, inizia una fortunata serie di coincidenze, prima fra tutte un passaggio su un fuoristrada, che ci consentono di essere alle 15 a Viozene, al camper di Alberto, dove brindiamo alla traversata che non vuol decollare.

La ripresa

Dopo un altro anno asciutto, a metà marzo del ’94 ci ritroviamo i soliti due più Ezio a Mondovì. Intendiamo partire da Artesina e ricongiungerci all’itinerario pernottando nuovamente al rif. Mondovì. Dopo che il custode ci ha indirizzati senz’altro al noto locale invernale, con stupore troviamo il rifugio aperto e occupato da un gruppo di scialpinisti, cui invece è stata fornita la chiave, i quali non sembrano gradire molto la nostra intrusione. Alla fine, il locale invernale risulta, tutto sommato, ben più ospitale dei “padroni di casa”. L’indomani ci attende una tirata di undici ore, assente qualsiasi traccia, di nuovo soli. Bello vedere dalla vetta del Marguareis il cielo ripulirsi da quel grigio metallico che prometteva assai male, più duro scorgere di lassù il passo della Boaria così tremendamente lontano. L’omonimo vallone è selvaggio, ripido e incassato, fino alla confluenza con il più ampio vallone di S. Giovanni. Sciando lungo la sua sponda sinistra superiamo deliziosi gruppi di baite, tra boschetti di pini bassi e faggi, poi lungo le piste giungiamo a Limone.

Nell’attesa dell’autobus per Limonetto, svaligiamo un fornaio, prosciughiamo la fontana e mescoliamo le nostre puzze sudate ai profumi di creme e belletti della fauna sciatoria di provincia al passeggio pomeridiano. All’albergo di Limonetto ci riuniamo ad altri amici venuti da Torino per salire con noi la Rocca dell’Abisso. Risolviamo con un thermos e un vassoio pieno di pane, burro e marmellata il problema della colazione ad un’ora in cui l’oste preferisce dormire della grossa. Bene, oggi non siamo soli a percorrere questo itinerario meritatamente rinomato. Risalendo gli ampi pendii sotto la vetta, posso voltarmi indietro ed abbracciare con un unico sguardo il percorso finora compiuto. Ed è in questo momento che sento di essere finalmente entrato nel gioco e riprovo quella sensazione, che mi rimanda ad altri luoghi e altri tempi, per cui so che conterò i giorni anziché le ore e vedrò davanti a me nient’altro che un tempo uguale al presente. Ed è per questo che, scendendo a Casterino, non mi dispiace nemmeno un po’ rinunciare alle belle serpentine garantite lungo le tracce di salita. Da forte Giaura, stretti corridoi e ripidi nevai consentono di raccordarci alla strada innevata che sale alla Bassa di Peirafica. Da qui, per lingue di neve, giungiamo sci ai piedi fin quasi a Casterino, dove i nostri amici sono venuti generosamente ad aspettarci.

Primo maggio delle Meraviglie

L’avevo detto che questo 1994 sarebbe stato un anno buono. Per il ponte del 1° maggio programmo la traversata della valle delle Meraviglie: la neve c’è e il tempo pare tenere. Impossibilitato Alberto, si fa avanti con entusiasmo Ettore. A Cuneo, dove vorremmo lasciare l’auto, per non abbandonare a metà un’insalata nizzarda, finiamo per giungere trafelati sul marciapiede accanto al binario in tempo per vedere la coda del nostro treno diretto a Tenda svoltare in fondo alla stazione, partito da pochi secondi. Come avvio non c’è male. Telefoniamo al taxista che ci avrebbe atteso alla stazione di Tenda dicendo che tarderemo un po’ ma arriveremo: in macchina. Alle 15,30, la faccia sorridente del signor Bresso ci accoglie sul suo furgone. Un’oretta e siamo alla sbarra oltre Casterino, all’imbocco della Valmasque. Rado bosco silenzioso.

Nuvole spinte dal vento lasciano filtrare coni di luce sui pendii che rilucono di grossi cristalli di neve fondente. Cielo azzurro tra nuvole nere e bianche. Rocce rosso-brune e tavole ghiacciate e irregolari dei laghi. Nel rifugio siamo soli. Il giorno successivo, al termine dell’evidente canale di fronte al rifugio, presso il Lago Gelato, qualche incertezza sulla localizzazione del Passo de la Fous non sminuisce la grande soddisfazione di togliere gli sci dal sacco e calzarli. Poi c’è il couloir della punta Acquasciati, ormai con neve marcia, infine lo splendido versante sud-occidentale del Clapier. Stesi sulle belle rocce piatte dove sorge il rifugio Nizza, ci rallegriamo di non dover ulteriormente scendere e abbandonare questi luoghi.

Domenica 1° maggio. Di nuovo soli. Dal Lac Long risaliamo il canalone individuato ieri. Mentre dal rifugio Madonna della Finestra sale una fila ininterotta di sciatori, giungiamo alla Terrazza dei Gelas come sbarcassimo da un altro pianeta. Qui ci dividiamo, io diretto al Gelas, Ettore al Balcone, per ritrovarci di lì a poco. Dal Balcone molti sciatori divallano lungo il ripido versante italiano. Non ci sembra tanto prudente e in ogni caso siamo affezionati all’idea di compiere la traversata sul versante Madonna della Finestra per scavalcare poi l’omonimo colle. La folla del rifugio Soria sciama poco alla volta, il rifugio chiude e noi ci ritiriamo al bivacco del Prajet, nel ripiano quaranta metri più sotto.

Purtroppo, il lunedì nuvole minacciose salgono dalla bassa valle e coprono man mano porzioni sempre più vaste di cielo e montagne. Oggi a Terme non arriveremo. Toccato il colle Fenestrelle con scarsa visibilità, discendiamo sulle nostre tracce, diretti a Entraque, da cui ci separano almeno dieci chilometri a piedi. Ma qui, mezz’ora sotto il bivacco, appare l’uomo della Provvidenza. E’ un cacciatore di immagini, dotato di un potente teleobiettivo e di un’auto parcheggiata poco sotto, disponibile ad accompagnarci dove più ci fa comodo: ovviamente, visto che s’è fatto mezzogiorno, prima in trattoria, dove siamo ben felici di offrire il pranzo al nostro gentile benefattore, e poi a Tenda, dove recuperiamo la nostra auto. Gliene saremo eternamente grati.

Piove sempre sul bagnato

Dopo un altro anno magro, è arrivato il mitico ’96 (bisestile!). Ma, ad un inverno di abbondanti, eccezionali nevicate, segue una primavera instabile. Le condizioni degli itinerari che collegano il Rif. Soria a Terme di Valdieri permangono pericolose. A Pasqua la strada per S. Giacomo giace ancora sotto una coltre di neve. Rimando la partenza al 25 aprile. Piove. E poi al primo maggio. Piove. E poi al primo fine settimana successivo passabile. Paradossalmente, nel giro di un mese, in basso non c’è quasi più neve mentre in alto ci sono fino a quaranta centimetri di neve fresca pesante e non del tutto assestata. Il periodo utile per la traversata rischia di trascorrere senza nulla di fatto.

Morale, tra il 10 e il 12 maggio, facciamo in due, Irene ed io, ciò che avremmo dovuto fare in tre, dopo esserci ritrovati addirittura in quattro. Sarebbe lunga da spiegare. In ogni caso, impieghiamo tre giorni quando ce ne avremmo potuti mettere non più di due. Insomma, non c’è un conto che torni e, soprattutto, ne prendiamo tanta e bagnata. Irene e io traversiamo a tentoni il colle di Fenestrelle con visibilità quasi nulla, ben peggio di quando Ettore ed io rinunciammo due anni fa. Il pomeriggio, al rifugio Genova, esce un sole beffardo e, mentre ci rilassiamo cucinando i soliti diafani liofilizzati, il repentino innalzamento della temperatura provoca inquietanti colate di neve fresca dai pendii scoscesi lì attorno. Beffardo, perché nella notte riprende a nevischiare e il nuovo giorno sorge sotto la stessa nuvolaglia del precedente. Cartina, bussola e una piccola schiarita ci consentono di infilare in qualche modo il Colle del Chiapus, da cui, con la coda fra le gambe, scendiamo giusto in tempo per raggiungere uno dei nostri amici che ci è venuto gentilmente incontro fino al Rif. Morelli. Allora, visto che è ora di pranzo e i liofilizzati ci han lasciato un certo languorino, andiamo tutti a festeggiare in trattoria a Valdieri.

Il giorno più lungo

E’ il sabato 25 maggio di questo straordinario ’96. Una cappa grigia sovrasta le montagne mentre saliamo, sci a spalle, verso il Piano del Valasco. Al rifugio Questa, custodito e riscaldato, c’è e un clima animato e festoso. Durante la notte il vento scuote le lamiere del tetto ma non porta via le nubi, alte e stratificate. Poiché non è possibile far tappa a Isola prevedo un impegno minimo di 12 ore. Perciò partiamo prestissimo. Tre amici accompagneranno me e Irene sul Malinvern, poi proseguiremo da soli per Isola e Bagni.

Mentre traversiamo verso la Valscura, punteggiata di laghi e sovrastata dalla piramide rocciosa del Malinvern, schiarisce. Togliamo gli sci nel ripido canalino centrale che dà accesso alla conca superiore del Malinvern, poi nuovamente alla base della cresta sud-ovest. Dalla vetta, il cielo grigio, insidiato da una banda di azzurro che si allarga all’orizzonte, lambisce una schiera di monti neri e imponenti: il Matto a oriente, l’Argentera a sud, più a occidente il gruppo di Fremamorta e Tablasses in cui spicca, inciso con una lineare pennellata bianca, l’omonimo canale. Alla Bassa del Druos restiamo in due, mentre il sole fa capolino tra squarci sempre più ampi. Divalliamo su altri laghi, poi per vallonetti e rado bosco giungiamo alle prime case dell’orribile Isola 2000.

Una domenica di fine stagione, tristi tralicci, impianti fermi, gente al passeggio nell’ora prima di pranzo. Con gli sci sul sacco diamo le spalle e saliamo per un’oretta lungo la strada del colle della Lombarda, su questo lato già aperta al traffico, senza nemmeno vergognarci di fare l’autostop. Ma le rare auto, i francesi sono sempre così pochi, non si fermano. Fino a ritrovare la neve poco sotto il colle. Calura estiva, quiete, e sul colle un cippo enorme. Il vallone di S. Anna è amplissimo e ha una dolce pendenza. Verso i 1950 m, dove giungiamo senza spingere su fondi di enormi valanghe, rimontiamo le pelli e saliamo, tra piccoli salti e numerosi torrentelli, al lago di S. Anna. Un ultimo strappo e siamo al Passo di Tesina. Nel versante opposto, molto ripido, si staccano slavinette superficiali di neve marcia. Più in basso dobbiamo cercare un ponte di neve per non dover guadare il torrente. Poi la neve termina e, su sentiero, alle 19,35 tocchiamo le case di Callieri, dopo 14,30 h dalla partenza. Mai trattoria ci apparve accogliente e meritata come quella di Vinadio.

Il ritorno di Alberto

Alberto, con gran tempismo, torna da uno dei suoi viaggi puntuale ed entusiasta giusto per la conclusione. Due settimane dopo la tappa di Bagni, con tempo stabile e afoso, strappo alla famiglia un ennesimo week-end lungo, contatto l’amico di Genova col quale prendo appuntamento a Cuneo per sabato 8 giugno, con le rispettive auto. La mattina trascorre andando su e giù per la valle Stura per lasciare un’auto ad Argentera, sicché solo alle 13 possiamo lasciare il parcheggio sopra Besmorello. Nei pressi del rifugio Migliorero calziamo gli sci. Le nubi, che ci han fatto sinora piacevole e ombrosa compagnia, vengono a somigliare sempre più al brutto tempo. Ma le previsioni dicono di no. Nel canalone che sale al passo di Ischiator la neve, della qualità di una saponetta, ci obbliga a caricare gli sci sul sacco.

Quando siamo pronti per scendere, la nebbia si dirada, e, prima che il ripido canale dall’altra parte ci inghiotta, godiamo una fuggevole visione del magnifico Corborant, tra monti e mare, sole e neve. Ho un po’ di rimpianto per non aver potuto includere, nella ristrettezza dei giorni a disposizione, questa bella montagna nel nostro carnet. Alle ultime curve nel canalone appare il grande lago di Rabuons, quasi completamente gelato, tra ondulazioni di neve e rocce montonate, piccolo mare in cui si specchia un orizzonte sereno con i colori carichi del tramonto. E all’orizzonte, sulla lontana bassa riva occidentale, simile alla casetta degli gnomi, ecco il refuge du Rabuons. Ore 19,30. Odore di fumo. Abbiamo appena constatato quanto sia emozionante trovarsi su questo versante, soli, ed ecco che troviamo il rifugio piacevolmente animato da un manipolo di agguerriti francesi (son pochi ma son dappertutto) armati di ramponi e racchette da neve, che hanno già acceso la stufa.

Domenica il tempo è bellissimo e la salita al Tenibre ci fa apprezzare ancora una volta i versanti d’oltralpe, aperti, spaziosi e cosparsi di bellissimi laghi. Il seguito è una movimentata e varia gimcana. Per toccare il vicino passo Tenibre seguiamo dapprima la cresta N, ben presto impraticabile, così risaliamo sui nostri passi e, dissuasi dal brutto aspetto del versante ovest del monte, ci infiliamo nel canalone N, per poi rimontare il pendio orientale del passo, con un caldo atroce e neve fradicia. Per individuare la successiva poco evidente Brèche Borgonio chiediamo a due che passano da quelle parti (gli unici che incontreremo lungo tutto il percorso). Da qui imbocchiamo il rilassante vallone di Vens, straordinariamente innevato.

L’omonimo rifugio, affacciato su un ennesimo grande lago, è una reggia a nostra completa disposizione. Alberto, profanatore di dispense e vero maestro nell’arte di arrangiarsi e fare molto con poco, getta alle ortiche i miei liofilizzati e prepara una cena da re, innaffiata da fondi di bottiglie di vino, francese naturalmente, scovato chissà dove. L’opposto versante, che risaliamo il giorno seguente, è un ripido costone erboso che sta trasformandosi in un giardino fiorito. In alto il sentiero serpeggia tra straordinarie formazioni calcaree dalle forme primordiali. La piacevole passeggiata prosegue, sospesa tra due versanti, lungo la cresta di confine. Dal Pas de Morgon il versante di discesa innevato ci riempie di gioia. Da un ripiano a circa 2350 m tracce di sentiero ci conducono celermente al colle del Puriac. Nonostante la stagione così avanzata, la Rocca Tre Vescovi pare da qui ancora fattibile. Infatti, lingue di neve e canalini raccordano pendii completamente innevati fin sotto il colle delle Vigne.

Anche la discesa nel vallone del Puriac è poi quasi tutta sciabile, compresa la straordinaria gola a metà valle, fino a 20 minuti da Grange. In un campo sterminato di anemoni, ranuncoli e botton d’oro, così rigogliosi e fitti da sembrare piantati, togliamo definitivamente gli sci. Un’ora e mezza dopo siamo alla mia auto a Besmorello. Alberto preferisce tornare a Genova presto, così, senza trattoria, ci facciamo un boccone al sole agostiano e ci salutiamo.