Racconto dal Passo del Brennero alla Valle Aurina

Verso il Gran Pilastro

A fine febbraio 2016, mentre trascorriamo una settimana scialpinistica a Dobbiaco in Val Pusteria, Alberto e io ci apriamo la strada dalla valle dell’Isarco verso la Val di Vizze e il Gran Pilastro, in un giorno di tempo magnifico e freddo. Rimaniamo unici superstiti di una squadra altrimenti ben più numerosa falcidiata da un virus intestinale. A causa del malanno ci ritroviamo soltanto in cinque a salire dagli ex impianti Zirago alle Terme del Brennero verso la bella Cima della Vallaccia. Abbiamo consultato una guida locale per avere ragguagli sull’itinerario di discesa nella Val di Vizze e sullo stato della neve nella zona, ma, con un po’ di superficialità, non abbiamo chiesto delucidazioni in merito alla salita, confidando nelle relazioni e nelle cartine di cui disponiamo. E’ da alcuni giorni che non nevica e le precipitazioni non sono state molto abbondanti. Le condizioni di sicurezza sono pertanto buone.

Durante la salita, Ettore accusa i sintomi del maledetto virus e si deve fermare al rifugio Genziana. Qualcuno di noi rientrerà da questa parte e lo accompagnerà nella discesa. Rimasti in quattro, Alberto, Laura, Marina e io, poco pratici di queste montagne, procediamo verso la Vallaccia puntando alla invitante cresta est. Ma, giunti sull’anticima, ci avvediamo che per raggiungere la vetta occorre scendere un tratto affilato e poi risalire, spendendoci un tempo imprecisato, per ritornare poi di nuovo qua in modo da raggiungere il Passo della Chiave, unico punto di accesso alla Val di Vizze. Considerata l’ora, decidiamo di desistere. Le nostre due compagne rientrano entrambe per dar man forte a Ettore.

Ed è così che Alberto e io iniziamo l’avventurosa discesa dal Passo della Chiave su Caminata. L’innevamento ideale assicura la stabilità dei ripidi pendii altrimenti pericolosi: un canale con mezza spanna di neve fresca su fondo duro e attorno appena un sottile strato sui prati bruni e secchi dell’inverno. Abbiamo occhi soltanto per il Gran Pilastro, che si palesa laggiù, nell’angolo più remoto della Val di Vizze, ostico passaggio nel proseguimento della traversata. Quando il canale termina, sappiamo di dover cercare un passaggio nel bosco per evitare un salto roccioso. Ravaniamo un poco, finché provvidenziali segni bianco rossi del sentiero estivo ci indicano la strada. Via gli sci e superiamo l’impasse. Resta poi una stradina e un ampio pratone con neve ormai cedevole fino alle prime case di Caminata. Pochi minuti e i compagni arrivano con come d’accordo. Ettore sta meglio e rientriamo a Dobbiaco con l’euforia di avere portato a casa il buon viatico per il proseguimento della traversata.

La notte più fredda

Alla fine di aprile si presentano nella zona le condizioni ottimali per l’attività scialpinistica in quota: buona stabilità dei pendii e un innevamento ancora sufficiente, mentre il meteo promette alcuni giorni di tempo bello. Ho anche verificato che la strada per il Lago di Neves, sopra Lappago, e quella per il Col di Vizze siano pulite e transitabili in auto. Alberto è impossibilitato, ma trovo in Marco B e Atz i compagni per improvvisare una partenza. Prevediamo di stare via sei giorni, due per il viaggio e quattro in montagna, cercando di concatenare la traversata del Gran Pilastro con la traversata del Gran Mesule e del Sasso Nero, dormendo nell’invernale del rifugio del Gran Pilastro, poi una notte a valle e la successiva nell’invernale della Berliner Hutte, collegando perciò la val di Vizze alla valle Aurina, in quel di San Giovanni.

Riusciamo a partire il 4 maggio, avendo stabilito di far base, per i pernottamenti in valle, appunto a Lappago nella Valle dei Molini, più o meno al centro dell’intero percorso e punto di sosta ideale per la notte a metà traversata, dove poter lasciare dunque rifornimenti e ricambi per la seconda parte.

Il simpatico albergatore di Lappago ci accompagna gentilmente a lasciare la nostra auto al Lago di Neves, per risparmiarci 4 chilometri a piedi al ritorno, e si dice disponibile ad portarci l’indomani nella Val di Vizze, niente affatto vicina, per una cifra assolutamente modica. In un paesaggio ravvivato da prati già verdissimi e dove brillano gli aghi nuovi dei larici, il mattino successivo egli ci lascia un po’ in anticipo lungo la strada del Col di Vizze, mal interpretando un cartello di divieto che si riferisce ad una località distante 4 chilometri. Ma tant’è. La neve sembra essere continua dai 1900 m. Seguiamo un buon sentiero, lungo il quale veniamo superati da una coppia austriaca che intende salire in giornata il Gran Pilastro. Seguendoli manchiamo un bivio del sentiero, un errore che ci costa 50 m di dislivello inutile. Ripresa la retta via, con i due austriaci che ora ci seguono, finalmente entriamo nella Valle del Liederbach, dove calziamo gli sci. Lo spostamento è notevole. Ci tocca scavalcare un dosso dal quale riguadagnare il piatto solco della valle discendendo un ripido canalino che ci obbliga a togliere gli sci. Poi soltanto una lineare e continua salita fino al rifugio del Gran Pilastro, posto in un ripiano sul fianco della valle. Gli austriaci sono ripartiti a razzo lungo una rampa laterale e restiamo nella più perfetta solitudine. Da qui ammiriamo il grandioso anfiteatro glaciale della Vedretta del Gran Pilastro, da cui si ergono alti monti innevati, ma il Gran Pilastro resta invisibile sopra di noi.

Il locale invernale è collocato al piano terra del grande edificio. Per aprire la porta c’è da asportare solo poca neve gelata. Molto più faticoso è liberare mezza anta della finestra, per avere un po’ di luce, bloccata da un conoide di neve ghiacciata come marmo. Lavoriamo a turno per un’oretta con il piccone presente in loco e le nostre pale. Il locale è poco accogliente e freddissimo. Materassi umidi e pavimento perennemente bagnato. Non ci sono attrezzi per raccogliere la neve che man mano portiamo dentro durente le corvée necessarie per ricavare acqua sui due fornelli che ci siamo portati. Ci stendiamo a turno nelle cuccette sotto una montagna di coperte, aiutandoci con le bustine scalda mani, usate più o meno propriamente: ad un certo punto Marco ne tira fuori una dalle mutande. Il cielo si è in parte coperto e il sole fa capolino solo ogni tanto a rianimare il paesaggio di una montagna ancora invernale. Attendiamo la minestra calda prima di infilarci completamente vestiti sotto le coperte. I piedi tornano quasi normali e la notte trascorre appena sopportabile.

Il mattino il cielo è sempre coperto e le cime sono nelle nubi. Abbiamo individuato ieri il corridoio glaciale tra due salti rocciosi lungo il quale salire. Quando entriamo nelle nuvole, ci accorgiamo che il chiarore aumenta e lo spessore della nebbia pare assottigliarsi. Dove il dosso glaciale si addolcisce, prima di saldarsi alla cresta principale della via normale, inizia a filtrare un pallido sole e proprio di fronte a noi si materializza improvvisamente la nostra cima, un perfetto triangolo bianco, interrotto da regolari fasce rocciose. La struttura di tutto questo versante del Gran Pilastro è una singolare raggiera di valloni glaciali sospesi e separati da salti rocciosi. Una meravigliosa sorpresa. In breve giungiamo sulla cresta dove abbandoniamo gli sci. Qui veniamo superati da tre altoatesini super veloci partiti direttamente dal fondovalle che amabilmente ci battono la traccia. Alle 10,20 siamo anche noi abbarbicati alla croce di vetta, ornata di fragili sculture di ghiaccio. Bacini glaciali e vette in gran parte sconosciute emergono dal mare di nuvole. Riconosciamo la vicina Cima Bianca, il più lontano Gran Mesule, e, subito sotto di noi, la Vedretta del Gran Pilastro con la forcella che dovremo raggiungere e scavalcare.

Ritornati agli sci la discesa fino alla vedretta è di gran classe, troppo presto interrotta per la necessità di ripellare e salire alla Forcella di Cima Bianca. Alla larga forcella, da cui si aprono nuovi panorami sugli arcigni gruppi del Mesule, Sasso Nero e Lovello, di nuovo si rannuvola e un vento forte e freddo ci sprona a rimetterci rapidamente in moto. Nella selvaggia solitudine dello Weisszintferner, dopo un inizio su neve crostosa, la discesa è di nuovo stupenda. Cerchiamo di non farci raggiungere dalla nuvolaglia che minaccia di inghiottirci. Direzione sud, pochi crepacci, avvallamenti sinuosi e neve veloce. Sopra il rifugio Ponte di Ghiaccio, un altro gioiello tenuto sfortunatamente chiuso nella stagione scialpinistica, un ripido canale ci permette di entrare direttamente nella valle della Pipa. Da qui tutto è facile, sebbene con la neve ormai appesantita, fino al bosco di conifere, dove infiliamo un corridoio tra gli alberi che ci deposita sulla riva del lago di Neves. Esauriamo le ultime energie per scarpinare sulla stradina fino alla diga, attraversarla e raggiungere la nostra auto. Ci siamo. Son passate da poco le 15 e siamo ben cotti.

Le previsioni purtroppo non promettono il bel tempo desiderato, così dalla valle dei Molini rientriamo a Torino, non prima del meritato ristoro di una cena e di una notte come si devono. In questa stagione non sarà più possibile proseguire, prima per il maltempo, poi per l’ormai eccessiva scarsità di neve in basso.

Velociraptor al Sasso Nero

L’anno successivo, ad aprile si presentano buone condizioni per riprendere la traversata. La strada per il lago di Neves è aperta e sono previsti alcuni giorni di meteo favorevole. Fidando nel buon consiglio della guida cui mi sono nuovamente rivolto, mercoledì 12 partiamo Atz ed io per Lappago, per sistemarci nell’albergo già utilizzato lo scorso anno.

Il giorno dopo, lasciata l’auto al lago di Neves, dopo un portage di circa un’ora calziamo gli sci nel ripido vallone morenico principale che seguiamo fino ad un ripiano sotto la rocciosa Penna sud del Mesule, che divide il vallone in due bacini paralleli, entrambi magnifici per lo sci, quello del Moselekopf a sinistra e quello del Mesule a destra. L’ambiente è spettacolare, anche se il sole stenta ad aprirsi un varco tra le nubi che iniziano ad addensarsi. Rimontando i ripidi pendii sulla destra, giungiamo a una singolare zona di basse cordonature rocciose lasciate scoperte dal ghiacciaio che si è ritirato. Abbandonato l’itinerario per la pur magnifica cima del Grande Mesule, per la quale occorrerebbero altri 400 m di salita da sommare ai 1400 che già ci stiamo sciroppando, ci dirigiamo alla forcella del Mesule Orientale. Siamo i soli in giro. Giunti qui il cielo si copre uniformemente lasciando quella visibilità metallica che tutto appiattisce. Discendiamo il ghiacciaio sul versante austriaco legati, in mancanza di qualsiasi preciso riferimento, districandoci a vista tra grandi crepacci sotto le scoscese pareti settentrionali del Mesule, col timore che le nubi che lambiscono le cime si abbassino. Non ci divertiamo un granché.

Fuori dal ghiacciaio, compaiono misteriosamente delle tracce. Decidiamo di  seguirle e scendiamo al centro del ripido vallone, dove le relazioni che avevo consultato e trascritto nei lunghi mesi di preparazione dicono di non andare. La visibilità migliora e anche il nostro umore. Il manto qua è perfetto e sciamo rilassati. Quando termina la neve continua, ci arrabattiamo un po’ con gli sci a spalle per raggiungere la capanna invernale della Berliner Hutte, un grande rifugio visibile già dall’alto. Partiti alle 5,40 arriviamo al rifugio che sono le 15. L’invernale è un’intera piccola capanna, con una zona notte e un’ampia cucina dotata di tavolo, panche e una stufa perfettamente funzionante. Una reggia. Troviamo la porta esterna spalancata e dentro al rifugio un berretto e dei guanti. Ci convinciamo che ci sia qualcuno in procinto di tornare, ma nessuno si farà vivo.

Il giorno dopo, venerdì 14, scovata nel rifugio una descrizione in tedesco che grazie ad Atz riusciamo a interpretare, di nuovo trascuriamo le nostre relazioni e intraprendiamo nell’ombra azzurra dell’aurora la salita al Sasso Nero per un percorso che si rivela poi molto logico. Alle nostre spalle la luna schiarisce sulla cresta del Mesule. Il vallone ampio e regolare è sormontato da conche glaciali, come lo splendido Schwarzenstein Keese, e creste, tra cui, per noi ‘stranieri’, non è facile orientarsi. Ampi spazi appartati e cime severe, un paesaggio esaltato dalla nostra solitudine, in una giornata che nasce radiosa e molto fredda. Lunga anche questa salita, più di 1300 m di dislivello con un notevole spostamento. In cima incontriamo quattro altoatesini, con cui ci comprendiamo a fatica, saliti direttamente stamani dal versante italiano seguendo il vallone di Lovello, che ci consigliano di percorrere in discesa invece di quello normale, che effettivamente sembra poco innevato.

Contiamo dunque di seguirli. Ma i quattro in men che non si dica partono come lepri e non li vediamo più. E’ naturale che queste montagne siano poco frequentate, e se mai soltanto da velociraptor: con rifugi chiusi e dislivelli mostruosi, non potrebbe essere diversamente. Così, mentre sul dolce plateau alla base del versante N del Sasso Nero cerco le loro tracce di discesa che si perdono tra antichi solchi gelati dal vento, mi fermo per un pelo sul bordo di una cornice che interrompe bruscamente il ripiano, non intuibile dall’alto, esposta su un pendio ripidissimo di neve e roccette alto diverse centinaia di metri. Prendo fiato. Il passaggio è una ventina di metri più avanti, presso le rocce della Cima del Balzo, dove la cornice è più stretta e dove con tutta evidenza i quattro sono scesi scalettando: un tratto a 55° che poi smorza a ‘soli’ 45°, che discendiamo con molta attenzione con picca, ramponi. Superato il ‘muvais pas’ e ricalzati gli assi imbocchiamo finalmente il vallone indicatoci. Qui, sì, davvero una goduria, fino a circa 2000 m di quota, sfruttando anche i  mughi piegati dal vento e dalla neve. Poi 500 metri da fare a piedi con 6 chilometri di spostamento, lungo una stradina che scende scende scende, poi sale, poi scende e poi di nuovo sale. Partiti alle 5,30, raggiungiamo malga Stallerer alle 16, distrutti. Sganciati un bel po’ di quattrini ad un taxi onde recuperare l’auto al Lago di Neves, ritorniamo all’albergo che sono le 17,45.