Una ripartenza alla chetichella
Primi giorni di febbraio del 1998, un inverno poco nevoso e molto soleggiato. Organizzo la gita da Argentera ai Laghi di Roburent un po’ alla chetichella, con diversi amici. Al momento non la chiamo “tappa”, per non enunciare la decisione, che in verità non ho ancora preso, di iniziare una nuova tranche della traversata. Salito il ripido costone erboso, la neve inizia bruscamente dietro il dosso della “Tinetta” e con gli sci ai piedi ci inoltriamo nel meraviglioso, solitario vallone dei Laghi. Ci imbattiamo in una baita semisepolta dalla neve, unico segno di presenza umana in tutto il vallone. Lungo canalini sinuosi, tra guglie di roccia dorata, giungiamo sul costone che sovrasta il Lago Grande e quindi all’ampia sella del Colle di Roburent. Di qui saliamo al Monte Vanclava, buon punto panoramico. In discesa non resta che lasciar correre gli assi su una neve ormai pesante lungo il dolce vallone dell’Oronaye fino alla strada a q. 1948 m, poco oltre il colle di Larche.
Individuato un compagno disposto ad accompagnarmi nella successiva traversata del M. Sautron, trovo anche il coraggio di dirmi che sono ripartito. Così, un paio di settimane dopo, un sabato sera, ci troviamo a correre con due macchine su e giù per la Maira e la Stura, per approdare alla “Trattoria della Pace” di Sambuco che la mezzanotte è passata da un pezzo. Alle 6,45 siamo già di nuovo in auto. Saliamo in direzione del Colle de La Gypiere che valichiamo per infilarci nel vallone di Viraysse. Non c’è nessuno. Non soffia un alito di vento, anche oggi fa caldo. Discesi sotto il M. Vallonasso, dobbiamo rimontare le pelli e risalire ancora. Giungiamo a Saretto alle 17,15. Saremo a casa a mezzanotte dopo aver percorso circa 400 km. Il tutto in poco più di 24 h, di cui 9 h sugli sci e meno di 6 h di sonno. Ma almeno “il dado è tratto”.
Con la poca neve che se ne va, mi assale una sorta di frenesia. Pochi giorni dopo partiamo in due per la traversata del M. Bellino. A Chiappera, al “Campo Base” la tavola è già apparecchiata. Il mattino dopo contorniamo la Rocca Provenzale e alle grange Collet calziamo gli sci. Lungo il vallone innevato e poi su fine detrito saliamo al Bellino, dove l’azione si stempera in un momento di solitudine ed armonia. Più sotto, le “Barricate” già aperte ci inducono a tenerci fuori della forra in cui si riversano direttamente i pendii sovrastanti. A Chiazale c’è la fermata dell’autobus, che dovrebbe partire alle 16. Ma l’autista è malato. La barista ci indirizza ad un autonoleggio di Casteldelfino da cui ci vengono a prendere. Cominciano poi due diverse odissee: la mia per recuperare l’auto a Dronero, e quella di Alberto per arrivare a Genova.
Una questione risolta in famiglia
A causa di un intervento chirurgico al femore perdo la stagione 1999. Quella successiva è scarsa di neve e carica di impegni. Il 2001 è finalmente nevoso, ma vado a cercare avventure in Marocco, dove invece di neve non ce n’è, e così anche questa stagione rischia di passare con un nulla di fatto. Ad aprile, da una proposta buttata lì quasi per scherzo a mio fratello Pino, nasce la possibilità di fare la traversata del M. Salza… in famiglia. Possiedo un’unica descrizione della salita dal versante di Bellino, nella fotocopia di un bollettino che custodisco gelosamente da anni. Pernottiamo al rifugio Savigliano a Pontechianale. E’ il week end del Trofeo Marsaglia e in alta valle ci sono gitanti e atleti. Tutti quelli a cui ci accodiamo alla partenza prima o poi imboccano altre strade, sicché nel vallone di Rui rimaniamo soli. Su cime e valloni aleggia la minacciosa velatura della tormenta. Pino, che non fa gite da tre anni, si ferma a riposare mentre io salgo l’ultimo pendio fino in vetta. Freddo polare e vento. Scendo, poi raggiungiamo insieme il Pas de Salza e divalliamo sull’altro versante, calamitati dalla rocciosa mole del Roc de la Niera, sotto un cielo striato di velature bianche. Dopo i Laghi Blu e la cengia dell’Antolina, tracce recenti attraversano il torrente. Ne raggiungiamo gli autori ai quali chiediamo uno strappo fino all’auto.
Taxiphone
Il 2002 è un anno decisivo. Trovo altri due compagni entusiasti per continuare la traversata che, superati gli ostacoli del Sautron e del Salza, da Chianale si sviluppa lungo la direttrice Col Agnel – Abriés – Col di Thuras – Valle di Thuras. Se il tempo terrà, si potrà poi proseguire fino a Claviere e Bardonecchia. Prenoto i posti tappa lungo il percorso e mi informo sugli orari di autobus e treni. Tutto inizia un pomeriggio di fine marzo intorno alle 16, a Torino, alla ricerca della fermata dell’autobus per Saluzzo. A Casteldelfino ci aspetta un taxista e a Chianale l’accogliente posto tappa “Laghi Blu”.
Il nuovo giorno si annuncia con un’alba prima rosa e poi livida, mentre il cielo si va coprendo di nubi alte e grigie. Su neve gelata giungiamo al Colle dell’Agnello Vecchio e quindi alla base della Rocca Rossa. Saliamo in cima coi ramponi. Di lassù il Re di Pietra sembra a un tiro di schioppo. Raggiunto il Col Vieux, scendiamo il lungo vallone di Bouchouse, su cui incombono i curiosi lastroni inclinati della Taillante. Giungiamo a L’Echalp un po’ su neve e un po’ su sentiero dopo 9h,30, alla faccia delle tappe dal volto umano. Dal gestore della gite d’Abriés, precedentemente interpellato, avevo capito, nel mio primitivo francese, che a L’Echalp avrei trovato un “Taxiphone”, al quale avrebbe risposto il servizio taxi di Abriés. Invece troviamo una normale cabina telefonica, senza altre indicazioni. Finché un giovanotto di buon cuore ci spiega che per chiamare un taxi bisogna comporre il “12” e parlare con l’operatrice. Ma che fare se, dall’altra parte risponde una segreteria telefonica? Chiamare il nostro gestore il quale, impietosito dalla disarmante idiozia del “Taxiphone”, si convince a venirci a prendere. Così alle 17,30 varchiamo l’agognata soglia del gite.
Il gestore è un buono e lo convinciamo ad accompagnarci anche il mattino seguente fino a Les Roux, da dove inizia la traversata del Col di Thuras. Ripaghiamo di cuore la sua gentilezza. Di neve ce n’è poca. Imboccato il vallone e saliti per un tratto, possiamo comunque calzare gli sci anche oggi. Seguendo una sorta di ripido costolone usciamo sulla cresta di confine poco a sinistra e a monte del colle di Thuras. Un elicottero fa la spola con il colle della Ramiére, da cui scende poi un gruppone di sciatori. Idem dalla Punta Marin. Dimenticavamo che saremmo entrati in un’area di “valorizzazione” del turismo invernale. Tornato silenzioso e solitario, l’infinito vallone di Thuras evoca il Nepal. In discesa, quinte di creste e canaloni scorrono ininterrottamente di fianco a noi, i versanti al sole già mezzi spogli, e ogni tanto ci sembra di sciare su un enorme lago gelato tanto il fondo è piatto e la pendenza dolce. Togliamo gli sci sopra Rouilles, per raggiungere il posto tappa “Fontana di Thures”, dove, per un malinteso, ci aspettavano… ieri.
Il giorno dopo, ritornati a Rouilles, procediamo sci a spalle fino alle grange Chabaud. Attraversiamo il lungo pianoro alle falde della Dormilleuse; tutto è ancora in ombra e la natura dorme nel gelo. Al colle Chabaud, il sole e la piramide slanciata del Pic de la Rochebrune. E non c’è anima viva. Solo grandi spianate e lievi ondulazioni, come su certi ghiacciai. La magia si interrompe bruscamente verso il colle Bousson a causa del fastidioso ronzare di alcune motoslitte, provenienti dal versante italiano. Ci infiliamo rapidamente in una valletta, come animali braccati. A parte gli effetti collaterali della “valorizzazione”, benché il percorso e i monti circostanti mi siano in larga parte familiari, l’atmosfera della traversata mi fa rivivere i luoghi con cuore e occhi nuovi. Il Lago dei Sette Colori è un grande ovale bianco, la valletta successiva una vela tesa fra due creste. In cima al Mont Gimond siamo felici. Anche di scendere, dopo, nei bei fuoripista e lungo gli impianti di Monginevro. Qui ci precipitiamo al Bureau du Tourisme per leggere il Meteo di domani e ci sistemiamo in un dignitoso alberghetto.
L’indomani lasciamo il paese che si sveglia e saliamo in diagonale per prati fino a portarci nella Valle di Rio Secco. Poi un lungo mezzacosta in un ripido bosco appena segnato da qualche traccia. Il povero torrente è imbrigliato in un susseguirsi di sbarramenti che ne sconvolgono completamente l’alveo. Ecco l’ombra fredda dello Chaberton. E, dopo una strettoia, la valle che si apre in un susseguirsi di balze e vallette che conducono al sole e al Col des Trois Fréres Mineurs, tre superbi roccioni di calcare rossastro. Discesa ripida, poi un rado bosco di larici, infine la larga mulattiera e l’incanto degli Chalets des Acles. Nessuno. Acque che gorgogliano, diversi chalets in ottimo stato, profumo di legna. Oggi non c’è quota ma dolcezza di pendii e di paesaggi. Riprendiamo, sci sul sacco, alla ricerca di un sentiero che non troviamo, illusi ogni tanto da qualche rustica traccia, un gioco per immergersi in un bosco primitivo dove vecchi alberi caduti sono scheletri di dinosauri e dove troviamo i veri resti di un agnello divorato da un vero lupo, sotto l’aguzza guglia della punta di Mezzodì. Alle 13,10 siamo al Colle des Acles. Pace assoluta, un cielo terso, una sosta su un fazzoletto erboso ai piedi di un larice. Scendiamo nel vallone di Guiond. Un bosco di larici spogli e pini verde cupo, lussureggianti di profumi e di colori, poi il largo Sentiero delle Borgate che ci consente di giungere, sci ai piedi, fino a mezz’ora da Pian del Colle e Melezet.
L’Ambin
Entusiasmati dal risultato della quattro giorni vorremmo ripartire al più presto per scavalcare la P. Sommeiller e giungere nei pressi del Moncenisio. Nel tardo pomeriggio di una domenica di fine aprile portiamo un’auto al piano di S. Nicolao. Con la seconda auto andiamo a Bardonecchia e poi saliamo a dare un’occhiata alla sterrata oltre Rochemolles, transitabile fino a q. 1920 m. Torniamo a Bardonecchia in tempo per un’asfittica cena in un alberghetto prenotato in precedenza. Il giorno dopo, da quota 1920, sospinti dal fresco e dal buon terreno, risaliamo velocemente il vallone di Almiane. Dalla panoramica quota 2887, sotto il cielo limpido, i pendii innevati della Sommeiller rilucono di riflessi metallici. Passati nell’alto Vallone della Balma, ci dirigiamo al Passo del Forneaux settentrionale. Poi per gradevoli avvallamenti e affioramenti rocciosi, in parte coperti di brina e ghiaccio, giungiamo al cippo in vetta alla P. Sommeiller. Troviamo il passaggio lungo la cresta Est dinanzi all’arcigno Grand Cordonnier: la discesa è entusiasmante. In basso, con un passaggio delicato raggiungiamo il fondo del Ruisseau d’Ambin e ci lasciamo andare alla lieve pendenza che ci porta all’incustodito refuge Ambin, in magnifica posizione.
Riposiamo al sole, con le nostre cose ad asciugare, tutto il rifugio per noi, accogliente. Con un enorme pentolone ci procuriamo acqua nel vicino torrente. Al calar del sole entrano in azione la stufa e la cucina a gas. La cena a base di cous-cous è pantagruelica, e al caldo.
Il mattino seguente discendiamo il vallone d’Ambin fino al ponte a q. 1870. Verificata l’impossibilità di accedere al vallone delle Savine, alle 8 iniziamo ad inerpicarci sci a spalle lungo un sentiero diretto al Piccolo Moncenisio, significativamente denominato Chamin des Chevres, che si insinua tra cenge e piccoli strapiombi nerastri per le colate d’acqua, in alcuni tratti ancora ghiacciata. E’ una fortuna che su questo versante, esposto a sud, non ci sia più neve. Usciti dalla zona boscosa la pendenza si attenua. Spesso ci fermiamo per fare il punto con altimetro e carte. Per fortuna il tempo tiene. Contornando a nord la Pointe Droset, troviamo un passaggio verso la P. Malamot e, a circa 2350 m, calziamo gli sci. Un paio di pelli si scollano, una rondella si stacca, e perdiamo ancora un po’ di tempo. Alla fine un piccolo esercito di grandi ometti ci accoglie in vetta alla Malamot. In discesa manchiamo un traverso e dobbiamo risalire 80 metri. Sotto e a sinistra del Lago Nero c’è un pendio ripido, inevitabile, punteggiato qua e là di boschina e segnato da tracce più o meno vecchie. La neve ora è marcia e lo strato superficiale parte sotto gli sci, generando piccole slavine di neve umida. Dal pianoro sottostante seguiamo per un tratto il vallone, poi una stradina e infine un sentiero, e giungiamo all’auto che sono le 18 passate, toccando il record di 11h e 15 minuti. Ma è fatta, sono arrivato al Moncenisio!