Cervino

Cervino, 4478 m. Via normale italiana o cresta del Leone (Valtournenche).

Caratteristiche: Grande salita esclusivamente su roccia o misto, con tratti in notevole esposizione, agevole in assenza di neve, altrimenti delicata. L’ascensione è piuttosto tecnica e, benché sia in parte facilitata da numerose corde fisse che proteggono i passaggi più impegnativi, richiede di sapersi muovere con disinvoltura in conserva sulle basse difficoltà. La via, lunga e faticosa, va ripercorsa integralmente in discesa (consigliabile scendere in doppia le corde fisse). Attenzione alle pietre mobili. Tenere conto che l’ascensione può risultare rallentata, oltreché disturbata, dall’affollamento alle corde fisse, sia in salita sia in discesa. Escluso il tratto di cresta sopra la Grande Corde, la via si appoggia sempre al versante italiano.

Difficoltà: AD+

Dislivello: 900 m dal Colle del Leone

Carte: IGM 1:25.000 f. 29, Monte Cervino; CNS 1:50.000 f. 5006 Matterhorn Mischabel.

Accesso: Uscita di Chatillon dell’autostrada per Aosta, da cui si svolta nella Valtournenche che si segue fino a Cervinia.

Avvicinamento: Partenza dal Rifugio Abruzzi a l’Oriondè, 2800 m, 2.20 ore dal Breuil (in alternativa servizio di fuoristrada). L’inizio della cresta è al Colle del Leone, 3581 m. Conviene comunque pernottare al Rifugio Carrel, 3830 m, eretto su uno spiazzo a un terzo della cresta del Leone e normalmente non custodito.

Salita: Dal Rifugio Abruzzi seguire un buon sentiero (ometti) che, transitando dalla Croce Carrel, sale verso il Ghiacciaio del Leone. Risalire la costola rocciosa alla destra del ghiacciaio seguendo tracce e ometti fin sotto la Testa del Leone dove occorre traversare orizzontalmente a destra (traccia, ometti) un esposto e ripido pendio di sfasciumi o neve per alcune centinaia di metri (pericoloso in condizioni non ottimali) raggiungendo il Colle del Leone (3581 m, 2.30 ore dal Rifugio Abruzzi). Dal colle innalzarsi sui primi contrafforti detritici della cresta del Leone, qui ancora piuttosto larga, fino a delle placconate grigie interrotte da brevi tratti spioventi (II) dove compaiono le prime corde fisse. Dopo facili gradoni seguire le corde fisse del percorso alternativo al famoso Cheminée, crollato nel 2003. Scalando le successive placche gradinate (fittoni per la sicurezza, II) si giunge alla piccola spalla su cui sorge il Rifugio Carrel, 3830 m (1-1.30 ore dal colle). Nel 2004 la vecchia Capanna Luigi Amedeo è stata smontata e trasportata a valle per farne un museo, dopo essere stata colpita dalla frana del 2003. Dal Rifugio Carrel iniziano i 600 m di cresta più impegnativi. Il primo serio ostacolo è la Grande Tour, che sovrasta direttamente il rifugio. Qui l’originale passaggio della Corda della sveglia è parzialmente crollato nel famigerato 2003 e sostituito da un percorso alternativo. Altre corde fisse e fittoni conducono diagonalmente a destra su placche fino a doppiare una crestina (circa 3900 m). Dirigersi ora a sinistra in una rientranza (Vallon des Glaçons) dove una corda fissa consente di superare uno strapiombino di rocce articolate di una decina di metri, al di sopra del quale si sale obliquando a destra per cenge, detriti e placche (qualche fittone, II+) fino a che diviene possibile innalzarsi a sinistra e guadagnare il filo della cresta a monte della Grande Tour, in un punto movimentato da spuntoni (Crete du Coq). Seguire brevemente la cresta qualche metro sotto il filo fino alle Placche Crétier (fittoni), oltre le quali inizia una traversata a destra quasi orizzontale, con qualche passo in discesa, su esili cengette e placche lisce ed esposte, il cosiddetto Mauvais Pas (10 m, III, fittoni). Si incontra poi il Rocher des Ecritures oltre il quale si perviene al pendio di neve e ghiaccio del Linceul che va costeggiato lungo le rocce del suo bordo superiore (corda metallica). Tutto questo tratto richiede molta attenzione. Salire quindi a sinistra ai piedi della Grande Corde o Corde Tyndall che protegge un caratteristico muro rossastro verticale e non molto appigliato, alto una trentina di metri, superato il quale (piuttosto faticoso) si esce in cresta (4080 m). La direttiva di salita è ora la cresta del Tyndall, abbastanza stretta e aerea, formata da placchette e lastre inclinate molto esposte. La presenza di neve può renderne molto delicata la salita, che altrimenti non è difficile (II, II+). Le eventuali maggiori difficoltà si evitano sul versante svizzero. Giunti sulla cima del Pic Tyndall, 4241 m, se ne percorre l’affilata cresta sommitale quasi orizzontale, lunga circa 250 m (con molta neve prestare attenzione alle cornici), poggiando, nel caso, sul versante italiano. Al termine si discendono due ripidi gradini e si affronta l’Enjambée, una profonda incisione che divide nettamente il Pic Tyndall dalla Testa del Cervino. La si supera abbassandosi il più possibile e compiendo poi un’ampia spaccata. Dall’altra parte la cresta è larga. Si scala a sinistra una svasatura di friabili rocce grigio-azzurre per una ventina di metri, poi per detriti e cengette si pone piede sulla piccola spalla orizzontale del Col Felicité. Con qualche breve aggiramento a sinistra superare la successiva impennata della cresta. Più in alto dirigersi nuovamente a destra lungo una cengia, un successivo risalto e una placca (corde fisse) fino alla base dello strapiombo che ospitava la Scala Jordan, ultimamente rimossa e sostituita da un percorso attrezzato piuttosto faticoso. La Corda Piovano protegge la successiva placca cui segue una cengia che riporta a sinistra in cresta, dove le ultime corde fisse conducono alla cima italiana (croce, 4476 m, 5-6 ore dal Rifugio Carrel). Sulla Testa del Cervino è facile trovare verglass anche nelle migliori condizioni. Una cresta orizzontale rocciosa o di misto e abbastanza affilata di una settantina di metri collega la sommità italiana a quella svizzera, punto culminante (4478 m). Il percorso si compie con poche difficoltà poggiando sul versante nord.

Discesa: Per l’itinerario di salita, con eventuali doppie alle corde fisse. Richiede 5-6 ore fino al Rifugio Carrel e altre 2-3 ore fino al Rifugio Abruzzi.

Materassi sulla schiena

Risalendo i primi chilometri della Valtournenche, affacciati al piano di Antey, una gigantesca piramide mozza di roccia grigia occupa all’improvviso tutto l’orizzonte. E’ il Cervino, il ‘più nobile scoglio d’Europa’. Non necessita di molte presentazioni: è una montagna simbolo, affascinante, stregante e allo stesso tempo repulsiva e faticosa, salendo la quale è palpabile ad ogni passaggio una tappa della storia dell’alpinismo.

Un venerdì di fine agosto Giulio ed io percorriamo la Valtournenche diretti al Cervino. Abbiamo davanti, secondo le previsioni svizzere, due giorni di bel tempo, alle spalle un buon allenamento, con le traversate dei Lyskamm e dei Breithorn compiute negli ultimi dieci giorni, e nel cuore tutta l’eccitazione per questa salita, tanto desiderata quanto temuta.

Al Rifugio Abruzzi all’Oriondè c’è un mare di gente. Picnic, alpinismo, escursionismo si mescolano nei colori e nelle voci di quanti affollano i dintorni del rifugio. Dritto sopra le nostre teste, tra le rocce della cresta sud-ovest della Gran Becca, giace mimetizzato il Rifugio Carrel.

Ci vviamo dal Rifugio Abruzzi carichi di molta acqua poiché pare che al Carrel non sia rimasto nemmeno più un filo di neve sporca. La montagna, d’altra parte, è nelle migliori condizioni, del tutto priva di neve su questo versante. Ben presto veniamo superati da diverse cordate che puntano ai posti migliori in rifugio. La prendiamo con filosofia.

Dal Colle del Leone abbiamo un assaggio della cresta affrontando le prime placche e poi l’impervio diedro de Le Cheminée, famoso passaggio obbligato protetto da una corda fissa. Qui abbiamo anche un assaggio di come si va sulle corde fisse da queste parti. Mentre Giulio sta per iniziarne la scalata, dobbiamo cedere il passo a due che, in discesa, si sono appena affacciati al termine del diedro. Si attaccano al cordone con le mani, puntano i piedi in opposizione e giù. Certo ci mettono poco.

L’incustodita Capanna Carrel è un piccolo nido d’aquila traboccante di gente. Ci affacciamo nell’unica camerata, troviamo due posti contigui ancora liberi e vi stendiamo sopra le nostre giacche a vento. Rientrando più tardi troviamo le giacche ammucchiate di lato e i nostri posti occupati da due sacchi a pelo. Proviamo a chiedere a due ragazzotti che si aggirano nei paraggi se ne sanno qualcosa. I due, i proprietari dei sacchi a pelo, sostengono di non avere inteso che i posti fossero occupati, e comunque ormai ci sono loro.

Non abbiamo alcuna voglia di ingaggiare una rissa, li mandiamo a quel paese e ci guardiamo attorno in cerca di una soluzione. Posti liberi non ce ne sono più. Adocchiamo due materassi di lana frusti ma asciutti sotto la fila più bassa di letti e ci viene un’idea. Ce li carichiamo sulla schiena e, piegati sotto il peso, con passi incerti li trasciniamo alla soprastante e quasi abbandonata Capanna Luigi Amedeo. Mai avrei immaginato di trasportare un giorno dei materassi sul Cervino. Giungiamo senza fiato alla vecchia capanna. Qui le assi scricchiolano ed i materassi che vi giacciono sono umidi, tuttavia, stendendovi sopra i nostri, il tavolato diviene praticabile. Passiamo una notte discreta, al largo e al fresco, cullati dal russare dissonante di due spagnoli e tre inglesi scesi dalla montagna con il buio. L’atmosfera è così lontana dal disturbante trambusto del Carrel che ci sembra di essere tornati all’intimità con la montagna, riconciliati con il senso di attesa che anima di paure e insieme di bei sogni la vigilia di tutte le grandi ascensioni.

Ci alziamo alle 4 e con il thermos di tè preparato ieri sera consumiamo una frugale colazione, nel tramestio delle prime cordate che fuori già si muovono. La levataccia è inutile: restiamo un’eternità in coda sotto la Gran Tour aspettando che si liberi la Corda della Sveglia, nell’aria pungente e nelle tenebre ancora fitte, mentre i coni luminosi delle frontali che ci precedono sul passaggio ondeggiano come lampare nella tempesta.

Finalmente, quando il cielo rischiara, tocca a noi. Ci misuriamo con l’ansia e con l’azione che allo stesso tempo la stempera e un senso di leggerezza man mano si impadronisce di noi. Tanto pesanti i materassi che portavamo sulla schiena ieri quanto leggeri adesso i primi movimenti sulla roccia della grande montagna. Ma l’idillio dura poco. Mentre procediamo nel concavo versante sud il pigia pigia ai canaponi raggiunge il parossismo. Alla Grande Corde, mentre assicuro il compagno, poiché intendiamo arrampicare piuttosto che tirarci sui canaponi, vengo letteralmente utilizzato come appiglio e poi come appoggio da un energumeno che ha fretta. Inutili gli improperi, in barba alla leggerezza e al senso di armonia con cui vorremmo accompagnare i nostri gesti.

Una volta usciti sulla cresta del Tyndall l’ambiente, chiuso finora nelle rientranze un po’ orride della parete, diviene ampio e solare e la salita assume un respiro nuovo: l’arrampicata si fa aerea, la roccia è solida e le cordate si possono finalmente distanziare. Qui abbiamo la percezione delle effettive colossali dimensioni del Cervino, del dislivello dei versanti, della lunghezza delle creste.

 In vetta al Tyndall, lungo l’affilato tagliente orizzontale, camminiamo sospesi come sul bordo di un francobollo. Ai lati precipitano repulsive e ripide pareti frananti. E arriviamo al famoso Enjambée, una larga spaccata durante la quale possiamo ammirare tra le gambe la rabbrividente fuga dei due canaloni simmetrici che precipitano lungo le pareti ovest e sud.

La testa del Cervino, di rocce grigie e ocra, man mano che saliamo perde la sua compattezza e si configura come un susseguirsi di ripidi salti e cenge fino alla scala Jordan, dodici gradini di corda lungo cui inerpicarsi, nuovamente intruppati. Pochi metri, gli ultimi canaponi e siamo sulla vetta italiana. Nei pochi fortunati minuti in cui rimaniamo soli, insieme alla consapevolezza di essere proprio qui ci coglie un senso di liberazione, di riappacificazione interiore con questa grande, dura montagna. Siamo felici e sopraffatti dalla grandezza dell’ambiente. Non scambieremmo questi istanti con null’altro.

Traversando alla vetta svizzera, il largo palettone della nord, con qualche pennellata di neve vecchia qua e là, si inabissa convesso, stagliandosi nitido sul piatto Ghiacciaio di Tiefenmatten.

La discesa ci impegna quanto la salita. Una volta al Colle del Leone avremo contato quattordici doppie, quasi sempre con tempi di attesa in coda. Acqua finita già alle 14. Giungiamo al Rifugio Abruzzi all’Oriondè col buio. Qui ci fermiamo. E, nella confortevole cameretta dove veniamo sistemati, lo sguardo corre istintivamente ai materassi: sono tutti al loro posto.

23–25 agosto 1990

L’imponente versante meridionale del Cervino dal Ghiacciaio della Forca, sopra il Breuil; contro il cielo a sinistra la Cresta del Leone